Internet e i social hanno sicuramente sdoganato, tra le tante cose, l’idea di poter esprimere un parere su qualsiasi argomento, a prescindere dalle proprie competenze.
Il mondo del doppiaggio moderno non si è dovuto però confrontare soltanto con pareri leciti o meno, arrivati dal mondo dei suoi fruitori, il pubblico. Nel corso degli anni, tra le moltiplicazioni e le corse forsennate, i paradigmi del doppiaggio hanno dovuto adattarsi a nuovi parametri, nuove regole.
Il doppiaggio italiano, lo abbiamo visto parlando della sua nascita, è stato qualcosa che in tutto e per tutto ha fatto sua l’idea di prendere un prodotto da un’altro paese e renderlo qualcosa di più che “semplicemente fruibile” nella nostra lingua. Una scelta che probabilmente ha fatto e fa storcere il naso a diversi puristi, ma che è quello che ha determinato le linee guida su cui si è sviluppato un approccio di lavoro di vera e propria eccellenza.
C’è poco da dire, quando qualcosa viene adattato da una cultura ad un’altra, è inevitabile che si debbano fare delle scelte e dei tradimenti: vale per la traduzione di libri, vale ancora di più per quella delle poesie, per fare due esempi. Oppure pensiamo ad adattamenti che travasano una forma creativa in un’altra… quante volte avete pensato “era meglio il libro”, quando guardavate la versione cinematografica di uno dei vostri romanzi preferiti?
Sono casi in cui, ribadiamo, è necessario compiere delle scelte, ognuna dettata da diverse ragioni e che sicuramente riusciranno sempre ad accontentare qualcuno e scontentare qualcun’altro. Possono essere discutibili, possono essere soggettive (siamo in un ambito in cui è davvero difficile immaginare che esistano assoluti) ma restano necessarie, e questo è un fatto.
Fino ad alcuni anni fa, queste scelte erano appannaggio dei vari studi italiani che si occupavano di adattare il film, la serie, il documentario o il cartone. Scelte che comprendevano non solo il famoso adattamento, ma anche come decidere quali voci abbinare ai volti originali. C’erano diverse ragioni che potevano ruotare intorno a questo tipo di decisione, ma il concetto principale che fondamentalmente seguivano tutti era uno e molto semplice. La voce che doppiava doveva essere credibile per la faccia che veniva doppiata. Sembra una banalità, ma non è così scontata. Il doppiaggio è ovviamente una sorta di trucco scenico, qualcosa di fittizio. Per far sì che questa sorta di “simulazione di realtà”, ovvero il fatto che io guardi un attore straniero, che interpreta un personaggio che si chiama magari John e che vive nel Massachusetts, e non mi stupisca che stia ordinando un hamburger in perfetto italiano, occorre ottenere un certo equilibrio. Abbiamo detto si tratta di un’illusione, e quindi, in quanto illusione, è anche qualcosa di piuttosto fragile. Può bastare poco per infrangerla. Come ad esempio una voce che “scolli” dal suo personaggio, ovvero che fatico a credere possa uscire da quella faccia che apre la bocca. O vedere le sue labbra che si muovo in maniera totalmente incoerente rispetto a ciò che pronuncia. O che continua a parlare anche quando quelle labbra si sono chiuse. Ecco perché per anni le voci italiane potevano persino essere lontanissime dal timbro della voce originale: non era la fedeltà quella che si cercava. Lo scopo principale era quello di far funzionare al meglio l’illusione.
Nel corso degli anni però le major straniere, soprattutto quelle americane, hanno iniziato a volere un controllo maggiore sui propri prodotti, imponendo supervisor e nuovi vincoli agli studi di doppiaggio italiani. Non più un empirica scelta che abbinasse voce e volti secondo un’affinità che si concentri solo sul risultato (e che probabilmente non capiscono appieno), ma scelte che siano il più possibile fedeli alla voce originale. E poi sono entrate in gioco anche le stesse produzioni nostrane con una serie di scelte dalle aspirazioni più “commerciali”, decidendo ad esempio di imporre talent, ovvero personaggi famosi come doppiatori al posto dei professionisti, sperando di attrarre pubblico. Pratica molto frequente ormai sulle produzioni animate.
Una scelta discutibile, soprattutto per i talent stessi: chiunque, a prescindere dall’impegno e dalle proprie qualità, si metta a fare qualcosa accanto ad un vero professionista del un settore (figuriamoci poi in un settore di eccellenza), non può che sfigurare. Se poi poco poco le tue capacità non sono all’altezza, quello “sfigurare” risalterà in maniera esponenziale, rendendo drammaticamente imbarazzanti performance che altrimenti avrebbero potuto essere, in un ambiente di pari livello, persino salvabili.
Ma il bambino dell’evoluzione corre senza guardarsi indietro. Le cose cambiano. In bene o meno non è sempre facile stabilirlo. È solo un dato di fatto.
Di questo e di molto altro, parlano gli artisti nella sesta puntata del nostro documentario, “Doppiattori”
In copertina: la banda di Sono Cose Serie con Marco Guadagno protagonista del documentario e della scena del doppiaggio contemporaneo