Tutti gli animali del nostro pianeta sono dotati di 5 sensi, che utilizzano per percepire il mondo, ma anche come canale di comunicazione. Quindi le comunicazioni possono essere chimiche (e toccano gusto e olfatto), visive, tattili e acustiche.
In tanti abbaiano, cinguettano, ululano, miagolano, ruggiscono, gracchiano, zirlano, garriscono, chiurlano, etc. etc. (sì, ma il coccodrillo come fa?). Ma questo non significa che il suono sia l’unica loro via di comunicare.
Molti mammiferi fanno vere e proprie dichiarazioni pisciando in giro (chimica. La ferma dichiarazione in media è “questa è roba mia” o “qui ci sto io”.), mentre alcuni animali esprimono tutto il loro dissenso (paura o rabbia magari) con una bella e fetida spruzzata posteriore (se magari pochi di noi hanno sperimentato la conoscenza diretta delle puzzole, al di là del latin lover Pepè le Pew dei cartoni Warner Bros, tutti quanti sappiamo bene cosa significhi una cimice turbata). Morbide pellicce, pelli urticanti e spine e aculei possono dirci molto del mondo tattile (e di quanto un sacco di animali possano essere misantropi). Sul fronte colori e modalità in cui le creature animali sono in grado di apparecchiarsi per comunicare cose varie, da “stai alla larga” a “sono pronto per l’ammore”, gli esempi si sprecano. Pensate alle cotonature e alle spalline negli anni ‘80, dove spesso i due messaggi entravano in sovrapposizione.
Ogni specie animale ha fatto le sue scelte sul proprio modo di comunicare, a seconda del tipo di segnale o della circostanza. Ovvero mediamente utilizza un metodo e un tipo di segnale più di altri.
I segnali di carattere sonoro hanno ad esempio alcuni vantaggi. Hanno un costo relativamente basso in termini di consumo energetico (cacciare un urlo costa sicuramente meno in termini energetici e di tempo che, ad esempio, farsi spuntare un set di piume colorate sul culo, per dire). Un suono si può propagare a distanza, in più direzioni e piuttosto in fretta. Certo, si estingue anche altrettanto rapidamente, ma in fondo basta ripeterlo. Piazzatevi un bimbo sui 6 anni sul sedile dietro della macchina, partire per un viaggio e scoprirete in fretta l’attitudine naturale e innata alla ripetizione (siamo arrivati?). Non dimentichiamo poi uno dei vantaggi più importanti dell’emissione sonora. Si può modulare, comporre, variare, realizzando con un solo strumento un numero infinito di messaggi.
Se poi ad ognuno di quei singoli messaggi si attribuisce un significato, un senso, ecco che passiamo ad un’altra forma di comunicazione: costruiamo il linguaggio. Prima di tirarvela come esseri umani, sappiate che lo fanno tranquillamente anche cetacei e cercopitechi.
C’è da dire che noi però ne abbiamo sviluppato un’evoluzione davvero notevole, grazie a tutto un apparato biologico piuttosto complesso composto da laringe, corde vocali, bocca. Una serie di strutture in cui forme e spazi dicono la loro nel costruire suoni e capacità vocali molto differenti. Al punto che possiamo avere nella stessa specie umana cantanti lirici, Barry White, Demetrio Stratos e il maestro Laurenti.
Come che sia, il punto chiave è che la voce e la parola per l’essere umano sono diventati un canale privilegiato nel suo vivere il mondo di tutti i giorni. Nel descriverlo, interpretarlo, percepirlo, comunicarlo, fruirlo. La voce umana ha assunto per noi valori e pesi specifici altissimi, ovviamente e soprattutto in ambito emotivo ed emozionale. Il suono di una determinata voce o i diversi colori che una voce può assumere sono capaci di toccare in maniera molto profonda le nostre viscere emotive. E ce ne siamo accorti anche grazie ad un mestiere strano e piuttosto unico che non ha eguali nel resto del mondo.
Gli albori del cinema sonoro misero in campo fin da subito dei tentativi di globalizzazione. Forse non in molti lo sanno, ma diversi comici come Stan Laurel e Oliver Hardy rigiravano le stesse scene dei loro film più e più volte. Non si trattava di antesignano perfezionismo alla Kubrik o a un numero elevato di blooper, ma semplicemente le rigiravano dicendo le battute in diverse lingue, per poterli poi distribuire in diversi paesi del mondo. Ovviamente le pronunce degli attori americani spesso erano piuttosto bizzarre, ecco quindi che quando in Italia si passò a dargli voci nostrane, si decise di tenere almeno in parte quel sapore di storpiatura. Quindi, per i filologi, il fatto che Stanlio e Onlio “porlino streno” è, in un certo senso, formalmente corretto e non un vero stravolgimento.
Poi, nel dopoguerra Hollywood voleva conquistare il mercato dell’intrattenimento Europeo. Ogni paese fece le sue scelte sul come far fruire le pellicole inglesi al proprio pubblico. La scelta italiana, con l’alto tasso di analfabetismo, virò sul doppiaggio, cioè sostituire le voci degli attori americani da voci di attori del belpaese. Ma il valore di quella scelta non fu soltanto quello di scegliere il canale sonoro a discapito di quello visivo (i sottotitoli). Al momento della sua nascita, il doppiaggio italiano scelse di non offrire un mero servizio, ovvero semplicemente dare agli spettatori uno strumento con cui comprendere ciò che veniva detto in un’altra lingua: decise di farlo restituendo anche l’interpretazione. Ed ecco allora che un pugno di persone che erano prima di tutto “attori” (all’epoca teatrali o radiofonici) si infilarono nei volti degli attori hollywoodiani, trasformandoli nella loro versione italiana.
E qui torniamo al punto di prima. Emozioni. Con gli anni, il moltiplicarsi di film e l’arrivo di telefilm e cartoni animati, quelle voci per gli spettatori sono diventati uno dei canali a cui legavano le emozioni, allo stesso livello dei volti degli interpreti e delle storie che lo schermo gli raccontava. Mentre il doppiaggio consolidava quell’idea di altissima qualità e credibilità (il concetto base è che il doppiaggio mi convinca che quella voce italiana esca dalle labbra di quella faccia straniera), il calore, il colore, il timbro e tutte le caratteristiche di quelle voci entravano nei cuori del pubblico.
Forse, in questo senso, uno degli ambiti in questo effetto ha dimostrato effetti e riverberi ancora più importanti è il mondo dei cartoni animati, soprattutto le produzioni televisive (nipponiche soprattutto, ma non solo). Perché? Perché le produzioni animate televisive, soprattutto prima dell’avvento della computer graphic verso la fine degli anni 90, vivevano di escamotage. Rendere quei disegni “animati” passava attraverso una serie di geniali soluzioni registiche (zoom, movimenti di camera, ripetizioni, etc.), che avevano lo scopo di contenere i costi di macchine produttive enormi. I risultati erano incredibili, certo, ma c’è poco da fare. C’era solo un ultimo dettaglio che era in grado di portare le emozioni in quei personaggi bidimensionali e trasformarli in esseri tridimensionali e vivi. L’ultima scintilla. La voce. Chiudete gli occhi e ripensate ai cartoni che più vi hanno emozionato nella vostra infanzia. Certo, vi scorreranno in testa le immagini. Ma anche altre due cose. Musiche (come le sigle) e le voci, ormai per voi indimenticabili, suoni su cui si è sviluppato il vero e proprio transfert emotivo.
Che cos’è il doppiaggio? Potete discuterne, criticarlo, amarlo o odiarlo. Potete contestarne le ragioni, le motivazioni. Ma è stato quella cosa lì. Quella magia per cui personaggi di carta prendevano vita o con cui attori distanti diventavano improvvisamente vicinissimi, perché parlavano come te. Ecco, magari solo meglio…
Di questo e di molto altro, parlano gli artisti nella prima puntata del nostro documentario, “Doppiattori”
In copertina: Francesca Guadagno una delle protagoniste del nostro documentario