Se guardo te, sono bugiarda. È quello che cantava Caterina Caselli invece di dire praticamente il suo opposto, ovvero: poi ho visto il suo viso, ora ci credo. Per Gianni Morandi la pioggia che scende sostituisce una ragazza, Eleonore, una bandiera gialla garrisce al posto di un pifferaio magico per Gianni Pettenati e una dolce e romantica ballata si fa pretesto cattolicissimo per il molleggiato.
Sono gli anni ‘60, la globalizzazione è qualcosa di estremamente lontano e il concetto di cover è qualcosa di estremamente relativo. In un mercato dove il concetto di importazione ed esportazione è ancora molto limitato ed esclusivo, non è che i discografici avessero obiettivi diversi da quelli moderni. A loro, come a tutti i produttori di qualsiasi forma d’arte o creatività, il concetto chiave alla base di qualsiasi strategia, illuminata o deprecabile che si possa considerare, è il semplice e chiarissimo “guadagno”.
E quindi perché non accettare che un brano possa essere riarrangiato e persino ri-parolato in un altro paese se questo aggiunge penny al tuo capitale? Non è che l’idea di prendere una canzone straniera e usarla come materiale su cui costruirci una roba con la stessa base ma magari più appetibile per un pubblico di un altro stato sia un’esclusiva nostra. Lo si fa ovunque e non solo con le canzoni di successo dei paesi di origine. Anzi, spesso questa pratica permette una seconda vita e una seconda opportunità e brani che nel paese di origine sono stati un flop, diventano, debitamente ri-adattati, successi in un nuovo paese.
Oggi siamo abituati ad un concetto di cover che ribalta le carte in tavola. Estremo rispetto per il brano e soprattutto il brano originale, mentre ad essere reinterpretato è l’arrangiamento. O il mood della canzone, che magari passa da dance a melodica, da rock a swing e via dicendo, fatto salvo il caso di rap e hip hop, che spesso fa un lavoro di assemblamento: mi tengo i ritornelli della famosa canzone originale e al posto delle sue strofe ci rappo una mia personale canzone.
Certo, oltre le logiche di mercato, pensare di riparolare una canzone anche stravolgendone completamente il narrato è un meccanismo semplice da capire. Le parole che usi dentro una canzone devono rispettare un sacco di questioni di tempi, metrica e cose simili. Pensa cosa succede quando parti da un ermetico inglese e passi al prolisso italiano. Come fai a riuscire ad incastrare bene un numero di parole che ti esplode tra le mani da un testo originale molto più breve?
Oppure pensate alle sigle dei cartoni animati. Ci spostiamo di decade. Ora siamo negli anni ‘70 e ‘80. Nella maggior parte dei casi per i cartoni animati giapponesi che invadono come uno tsunami le nostre tv, si decide di scrivere cose ad hoc. Mediamente i parolieri hanno visto qualche immagine e qualche stralcio e vià. È così che ci troviamo con veri e propri non sense (facciamo tutti una bella insalata di matematica) o testi fuorvianti, in cui si cantano protagonisti che non esistono (siamo tutti ancora lì ad aspettarci più spazio per Benji e Shiro, per dire). Però lo facevano creando melodie e arrangiamenti che si sono scolpiti nel nostro immaginario.
Anche qui però, qualche volta si sceglieva di tenere i brani originali, e semplicemente scrivere un nuovo testo. Anche in quel caso far combaciare le due lingue sarebbe stato molto difficile. Fate un esperimento. Cercatevi su youtube la sigla italiana di Jeeg Robot (che, lo ricordiamo, non è cantata da Piero Pelù!) e poi la sua versione originale e fatevi qualche risata.
E siamo sempre lì: nella grande infornata del doppiaggio, bisogna ricordare che il sottotitolo non è stato completamente mondato. Andate indietro nel tempo troverete una categoria classica di Hollywood in cui il sottotitolo è sempre stato presente ben prima dell’avvento di internet: i musical. Le parti cantate dei musical più classici, dal Mago di Oz a Singin’ in the Rain, dai classici di Fred Astaire e Ginger Rogers a Sette Spose per Sette Fratelli li abbiamo sentiti, per quanto riguarda il cantato, in inglese. Raro, rarissimo che si intervenisse nel faticoso e complicatissimo adattamento in italiano, che in questo caso non avrebbe certo potuto permettersi le libertà che abbiamo raccontato fin’ora.
Questo almeno fino a Walt Disney. Quando il musical è arrivato ai bambini infatti, la questione è stata completamente ridiscussa. Chiunque abbia o ha avuto a che fare con dei bambini (o magari qualcuno se lo ricorda pure, visto che in effetti tutti siamo passati per quella fase…) conosce benissimo il potere e il fascino di musica e filastrocche. Avrebbe avuto senso quindi portare un prodotto destinato soprattutto (certo non solo) a loro, ma rendendolo per loro monco di una parte con l’utilizzo dei sottotitoli? Non pensate ad oggi, in cui molti bambini hanno più dimestichezza con l’inglese di tanti adulti. Pensate agli esordi. Siamo consapevoli di stare per dare un brutto schiaffo alle vostre vite quando vi ricorderemo questo, ma… Biancaneve e i Sette Nani ha iniziato a veleggiare verso i 100 anni (è del ‘37!).
E così si è aperto un nuovo universo, dove brani originali di musical di altissimo livello non sono stati tradotti arbitrariamente, non sono stati coverizzati, ma sono, a tutti gli effetti, diventate canzoni in italiano (e in tante altre lingue, visto che lo stesso è capitato in ogni paese del mondo in cui quei film vanno a finire) rispettose dei contenuti e del loro significato di partenza. Potere dell’adattamento!
A proposito, non cadete nel solito errore nostrano di confondere “per bambini” con “puerile”. Parliamo di roba da Oscar e che, lo sappiamo, ancora canticchiate con trasporto.
Di questo e di molto altro, parlano gli artisti nella quarta puntata del nostro documentario, “Doppiattori”
Fonte immagine di copertina: Saskatoon Symphony Orkestra